
Il senso del rispetto in un tempo come il nostro
Chi urla ha ragione?
di Gabriella Rinaldi
Ho preso in mano la penna con l’intenzione di buttare giù qualche pensiero sul concetto di inclusione, di linguaggi in rete e, al contrario, dopo aver letto notizie e ascoltato tg, sono i pensieri che hanno buttato giù me.
Ci sono alcune situazioni in cui, penso, sia meglio starsene in rispettoso silenzio. Per questo non parlerò di quanto sia brutta la guerra, ingiustificato l’odio o dolorose le cicatrici.
Questo è lo spazio in cui allenarsi a riflettere sul linguaggio, sull’accordo e sull’equilibrio della relazione, sugli effetti della parola e del non detto, sul rispetto anche. Quindi ripesco i pensieri dal fondo e faccio in modo che prendano ossigeno in superficie, animata da una sincera – seppur talvolta ingenua – voglia di indagare quel sistema organico, dinamico e così umano che è il linguaggio.
IL LINGUAGGIO RACCONTA UNA STORIA L’arte della guerra è, prima che nelle invasioni di campo e negli sconfinamenti, un fatto di comunicazione. Noi, che pure guerre vere non ne facciamo, siamo abituati ad esprimerci con un linguaggio bellico e neanche ce ne accorgiamo. Ne parlavo qualche tempo fa in questo articolo. Raccontiamo e ci raccontiamo storie di persuasione, leve strategiche, piani di attacco, bombardamenti con campagne mirate e target colpiti.
Parole, parole parole. Che poi, quanto conta davvero? Secondo uno studio di Albert Mehrabian intitolato “Silent Messages”, l’incidenza del contenuto verbale nel messaggio comunicativo orale è del 7%, a fronte del 38% degli aspetti paraverbali e del 55% del linguaggio non verbale.
Anche il linguaggio del corpo quindi racconta una storia. Il linguaggio non verbale rappresenta uno dei canali principali della comunicazione, ed è in grado di togliere o regalare grande credibilità ai messaggi che comunichiamo. Se per caso hai visto la serie televisiva “Lie to me” in cui un magistrale Tim Roth interpreta uno psicologo esperto di comunicazione non verbale a servizio della giustizia, devi sapere che è ispirata agli studi di Paul Ekman sulla cinesica (la scienza che studia il linguaggio del corpo).
Secondo gli studi del linguaggio del corpo esistono alcune categorie di espressioni facciali, movimenti della testa, sguardi e posture universali, uguali in tutto il mondo, che comunicano all’interlocutore riconoscimento o distanza, apprezzamento o disattenzione, rispetto o supponenza. La sigla di “Lie to me” fa una sintesi:
IL COMPORTAMENTO DEL POTERE C’è una stretta relazione fra linguaggio del corpo, senso di potenza, autostima e leadership. In tutto il regno animale, le posizioni di dominanza comunicano fierezza, sicurezza con una gestualità che amplia lo spazio occupato, fa erigere la postura e divaricare gli arti. Il cervello, in risposta a questo condizionamento, aumenta i livelli di testosterone e diminuisce quelli del cortisolo.
Al contrario, il senso di impotenza ci fa rimpicciolire, le spalle si incurvano e i muscoli del volto sono contratti e le espressioni inibite.
“Poiché il corpo esprime chi siete, imprime negli altri l’immagine di quanto siete nel mondo.” Alexander Lowen
RI-SPETTO Prendo spunto da una delle video-conversazioni sui canali di Mediobanca e Startup Italia in cui Alessandro Lucchini guarda “Dentro le parole” e stimola riflessioni per un linguaggio più inclusivo e capace di accogliere la diversità. Mi riferisco in particolare all’appuntamento dedicato alla parola rispetto. Puoi guardarlo qui.
La definizione del termine è ampia e può riguardare le relazioni tra persone, le buone pratiche di convivenza sociale, l’osservanza delle regole. E ancora: prestare attenzione a quello che c’è intorno, vedere.
“C’è un verbo in inglese che esprime bene questo concetto: to notice; è più che osservare, è notare il dettaglio, accorgersi, prenderne consapevolezza. Per questo occorre tenere il più possibile in sospeso i nostri filtri cognitivi, le nostre convinzioni, che ci porterebbero in fretta a etichettare, giudicare, scegliere se escludere o includere.” Alessandro Lucchini
Anche qui, non solo parole. Si tratta, appunto, di un certo allenamento di pensiero e di azione per riconoscere il valore dell’interlocutore, la sua posizione. Se ti rispetto, prima di tutto ti vedo. Il mio corpo e le mie parole te lo comunicheranno, con empatia.
IN UN TEMPO COME IL NOSTRO Il rispetto è un tema cruciale in rete, che potrebbe davvero essere il luogo del confronto in cui più posizioni diverse creano prospettive nuove e fertili, creative e generose. Eppure il rispetto online sembra essere diventato il pretesto per avere ragione a tutti i costi, alimentando quel linguaggio bellico da cui, pur volendo, è difficile estraniarsi e non subirne conseguenze dirette o indirette.
Basterebbe fare un giro sui canali della social-linguista Vera Gheno, presa di mira dai detrattori delle declinazioni al femminile e di tutti quegli espedienti (schwa, asterischi, ecc) con cui si prova a riflettere sulla rappresentazione di genere nel nostro sistema linguistico, per rendersene conto.
Approfondendo il suo punto di vista, poi, ci si può rendere conto di una cosa fondamentale: è vero che chi urla fa più rumore, ma non è detto che riesca ad ottenere più ragione.
E questo, in un tempo come il nostro fatto di impazienti conquiste e chiassose minacce, mi sembra un prezioso assunto in cui credere e con cui riappropriarsi con le parole e con il non detto, di uno spazio di vita più sereno e pacifico.
- On 28 Febbraio 2022