Le lettere d’amore
di Chiara Lucchini
“Le lettere d’amore sono ridicole. Non sarebbero lettere d’amore se non fossero ridicole”, diceva Pessoa. Ma a volte fanno anche soffrire: è la disperazione o l’angoscia che spinge a scrivere una lettera d’amore. O l’ultima speranza di poter recuperare un rapporto. Un genere così atipico, per cui non esistono manuali: breve viaggio nella letteratura amorosa.
È estate. Alcuni di noi sono già al mare, o in montagna, o stanno facendo viaggi esotici. Altri (come chi sta scrivendo) sono ancora in città, e magari vorrebbero essere al mare. Ci prenderemo una pausa anche noi, per ridarci appuntamento a settembre. Potremmo parlarvi del metodo CRG, dei sistemi rappresentazionali, dei livelli logici. Ma sappiamo che tutte questi strumenti li conoscete già. E per chi non li conosce, c’è tempo a settembre per imparare!
Un genere così atipico, così poco genere. E così popolare: chi non ha mai scritto una poesia, una canzone, un diario segreto idealmente dedicato alla persona amata? Cose da ragazzi? Tempo fa avevo pensato di scrivere una lettera d’amore. Ma non sapevo da che parte iniziare.
Avevo addirittura trovato un corso in cui ti insegnavano a scriverle, le lettere d’amore. Nella descrizione del corso si invitavano i partecipanti a scrivere qualcosa senza ricorrere allo smartphone. È vero: oggi siamo abituati a scrivere in forma sintetica, o a comunicare il nostro sentimento con un cuoricino su whatsapp. O magari a ricorrere a una citazione breve come: “Eravamo insieme, tutto il resto del tempo l’ho scordato.” (Walt Whitman). Ma quello che vorremmo dire va ben oltre. E starebbe molto meglio su un foglio, chiuso dentro a una busta.
Poi ho pensato che sarebbe stato meglio iscrivermi a un corso di cucina. Perché quando dico che sono vegetariana, già perdo parecchi punti. Se poi scoprono che non so cucinare neanche i piatti vegetariani… un crollo! E se la persona a cui vorrei scrivere la lettera d’amore è cenestesica e non ha nessun interesse a leggere le mie parole?
Insomma, alla fine non mi sono iscritta a nessuno dei due corsi, ho solo fatto un breve viaggio nella letteratura amorosa per capire cosa hanno scritto i grandi.
Le lettere d’amore fanno solo ridere
Tutte le lettere d’amore sono
ridicole.
Non sarebbero lettere d’amore se non fossero
ridicole.
Anch’io ho scritto ai miei tempi lettere d’amore,
come le altre,
ridicole.
Le lettere d’amore, se c’è l’amore,
devono essere
ridicole.
Ma dopotutto
solo coloro che non hanno mai scritto
lettere d’amore
sono
ridicoli.
Magari fosse ancora il tempo in cui scrivevo
senza accorgermene
lettere d’amore
ridicole.
La verità è che oggi
sono i miei ricordi
di quelle lettere
a essere ridicoli.
(Tutte le parole sdrucciole,
come tutti i sentimenti sdruccioli,
sono naturalmente
ridicole).
Roberto Vecchioni, ispirandosi a questa poesia, ha dedicato a Pessoa la canzone Le lettere d’amore.
Non è così? Vi è mai capitato di leggere una lettera di un amico alla sua amata? Non scatta quello strano sorriso, che forse è benevola compassione, o compiaciuta simpatia, o autentica derisione? Guai, però, se riapriamo quel pacco che teniamo nascosto in uno scrigno. Non viene tanto da ridere.
Ma fanno anche soffrire
Come in questa lettera di Franz Kafka a Milena: la parola “angoscia” è ripetuta tre volte. Questa lettera, che risale al 1920, è la prova di un amore idealizzato che non si realizzerà mai. Kafka le scrive che “Questo incrociarsi di lettere deve cessare” perché “ci fanno impazzire”, e ripete più volte “mi lagno di…”. Fino a chiederle: “Come continueremo a vivere?”
«Ancora sabato. Questo incrociarsi di lettere deve cessare, Milena, ci fanno impazzire, non si ricorda che cosa si è scritto, a che cosa si riceve risposta e, comunque sia, si trema sempre. Capisco benissimo il tuo ceco, odo anche la risata, ma m’ingolfo nelle tue lettere tra la parola e il riso, poi odo soltanto la parola, poiché oltre a tutto la mia natura è angoscia. Non so rendermi conto se dopo le mie lettere di mercoledì-giovedì tu voglia ancora vedermi. So il rapporto fra te e me (tu appartieni a me, anche se non dovessi vederti mai più), lo conosco in quanto non sta nel territorio confuso dell’angoscia, ma non conosco affatto il rapporto tuo verso di me, questo appartiene tutto all’angoscia. E neanche tu mi conosci Milena, lo ripeto. Ciò che accade è per me qualcosa di mostruoso, il mio mondo crolla, il mio mondo risorge, vedi come tu (questo tu sono io) ne possa dare buona prova. Non mi lagno del crollo, il mondo stava crollando, mi lagno del suo ricostruirsi mi lagno delle mie deboli forze, mi lagno del venire al mondo mi lagno della luce del sole. Come continueremo a vivere? Se dici di sì alle mie lettere di risposta, non devi più vivere a Vienna, è impossibile. Milena, non si tratta di questo, tu non sei per me una signora, sei una fanciulla, non ho mai visto nessuna che fosse tanto fanciulla, non oserò porgerti la mano, fanciulla, la mano sudicia, convulsa, unghiuta, incerta e tremula, cocente e fredda.»
L’ultima speranza
Un magnifico esempio di rassegnazione e dignità insieme, di desolata ricerca di un nuovo spiraglio, di complessità di emozioni pur nella sintesi formale, è la lettera di Alessio Aleksandrovic Karenin, marito di Anna Karenina. Tradito, disperato, offeso, impotente nel comunicare con una donna che mal sopporta la sua presenza, ripone l’ultima speranza in un foglio di carta.
«Mi sono accorto che la mia presenza vi è penosa. Per quanto dolorosa mi sia questa costatazione, vedo che è proprio così e che non può essere diversamente. Non vi rimprovero. Iddio mi è testimone che, durante la vostra malattia, ho preso sinceramente la risoluzione di dimenticare del tutto il nostro dissidio e di cominciare una nuova vita.
Non mi pento di tutto quello che ho fatto e non me ne pentirò mai. Ma costato di non aver potuto ottenere l’unica cosa che desideravo: il vostro bene, il bene dell’anima vostra. Ditemi voi stessa che cosa vi potrà dare la vera felicità e la tranquillità dello spirito. Mi rimetto interamente alla vostra volontà e al vostro sentimento di giustizia.
(Lev Tolstoj, Anna Karenina, A. Mondadori parte quarta, cap. XXII)
Amore in Internet
Abbiamo parlato di Le ho mai raccontato del vento del Nord romanzo epistolare dell’era di Internet, che racconta la corrispondenza tra due sconosciuti che si avvicinano attraverso la scrittura. Uno scambio virtuale quotidiano che si trasforma presto in un legame profondo, nascono sentimenti che travolgono entrambi. Un semplice passatempo per colmare qualcosa che manca nella vita reale? O i due, scrivendosi e-mail, si sono innamorati?
Basta citazioni!
Questo è stato il mio viaggio nella letteratura amorosa, che ho condiviso con voi. Ricordo che anni fa, un mio insegnante, notò quanto mi piacesse fare citazioni “colte”. Citare frasi di libri, film, canzoni. Ero giovane, mi dava sicurezza, mi sembrava che quelle parole sarebbero state sicuramente più convincenti delle mie. Un giorno lui mi disse, facendo a sua volta una citazione:
Quella lettera d’amore non l’ho ancora scritta. Non so se mai lo farò. Non potrò fare un copia e incolla di citazioni letterarie. Quando troverò il coraggio di scriverla, troverò le mie parole.
E mi renderò ridicola.
Visto che quel momento non è ancora arrivato, chiudiamo con una poesia di Montale, dedicata alla moglie Xenia. Naturalmente non aggiungiamo una parola.
Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
E ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.
Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.
Ho sceso dandoti il braccio, Eugenio Montale
- On 20 Luglio 2018