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Le parole sono finestre oppure muri. Il linguaggio della disabilità.

di Chiara Lucchini

Le parole creano le relazioni, oltre a rifletterle.
Ancora un pensiero sul vantaggio di pensare, prima di parlare e scrivere.

«Diversamente abile, invalido, handicappato: basta!
Le parole sono importanti.Le parole mostrano la cultura, il grado di civiltà, il modo di pensare, il livello di attenzione verso i più deboli.
Non è un’esagerazione.
Cambiamo il linguaggio e cambieremo il mondo.

Claudio Arrigoni, giornalista sportivo,
inviato Rai alle paralimpiadi

Abbiamo iniziato a riflettere dell’importanza del linguaggio della disabilità con Cecilia Fort, che lavora in Generali Italia in ambito HR. Cecilia ci ha raccontato la propria storia.

 

La storia di Cecilia

Cecilia è nata a Venezia il 31 luglio 1978. Poco dopo la nascita i genitori hanno subito capito che qualcosa non andava nei suoi occhi, perché lacrimava, le dava fastidio la luce, dormiva tanto. La sentenza arrivò presto: si trattava di glaucoma. Il glaucoma veniva definito come “il ladro silenzioso della vista”, perché in modo graduale, progressivo e inesorabile portava via la luce dagli occhi.
Quando Cecilia aveva solo sei mesi, i genitori s’imbarcarono in un viaggio di 13 ore di treno fino ad arrivare in Svizzera, dove c’era un centro in cui potevano curarla. Fin da subito ha cominciato a essere sottoposta a una serie di interventi chirurgici. Ma mentre l’occhio destro reagiva bene, il sinistro invece non era forte e non è più stato in grado di reagire, l’ha perso quando era piccola.
Ma con l’occhio destro, che aveva due decimi, Cecilia ha fatto molte cose: studiava, disegnava, faceva sport. Anche se ci vedeva pochissimo.
Dalle medie in poi ha cominciato ad avere soddisfazioni nello studio.
Ha fatto il liceo classico sperimentale (la matematica dello scientifico più informatica).
Poi l’università: scienze politiche con indirizzo internazionale. Poi due master, uno in Diritti umani e dialogo interculturale e uno in Diplomazia.
E poi la possibilità di entrare in Generali, dove lavora ormai da quindici anni.

Il 31 luglio 2006, pochi giorni dopo la sua promozione al livello successivo, Cecilia è partita per fare una visita in Austria. E non è più tornata a casa per cinque anni, perché la situazione si è aggravata, neanche la chirurgia rispondeva più. Cinque anni lontana da casa, lontana dagli affetti, lontana dal lavoro, in una stanza di una clinica di 12 metri quadrati.

È stata una guerra. Cecilia l’ha combattuta. E l’ha persa. «Pazienza», dice. Perché alla fine si è accorta che la vista era compromessa, non vedeva più.

Così ha perso l’indipendenza. E con l’indipendenza è andata via anche l’autostima, perché non era più in grado di fare niente.
Allora ha cominciato a rimettere insieme dei pezzi, ad acquisire capacità per ritrovare l’indipendenza. Ha imparato a dattilografare sul computer, a usare il telefonino, a fare il letto sentendo la piega con le mani.
La grande sfida, però, era uscire da casa. Per andare fuori da casa ci sono tre modi. O ti fai accompagnare, e non guadagni né in autostima né in indipendenza. O scegli il bastone bianco, che però è anche questo un grande limite nei rapporti interpersonali, è un simbolo estremamente visibile, perché chi vede passare un cieco con un bastone bianco si allontana, forse per non distrarlo, o forse perché quell’oggetto che si brandisce fa un po’ paura. La terza modalità è il cane guida: il cane è vivo, e poi un cane racchiude un sacco di cose belle. Cecilia ha capito che questa era la sua strada. Per ottenere il cane ha fatto molta fatica, perché prima è necessario fare un corso apposito e poi mettersi in lista per avere il cane. Loren è arrivata da lei il 18 dicembre 2011.

Da lì è iniziata una nuova avventura, perché la libertà con un cane guida si ottiene con il lavoro, la costanza, l’esercizio continuo e l’intesa che si crea con il tempo. Ci vogliono mesi e mesi.
Cecilia ci scherza. Capita spesso che le persone le chiedano: «Ma davvero vai in ufficio col cane? Davvero lo porti in ufficio?». Tecnicamente è Loren che porta in ufficio lei. Lei, senza Loren, l’ufficio non lo trova. Manca poco che anche Loren voglia il proprio badge. E tra poco chiederà di essere iscritta ai sindacati di categoria, tanto è ben integrata.

Diversity & Inclusion. Disability

Cecilia si occupa di risorse umane in Generali dallo scorso ottobre, prima lavorava in un settore più tecnico.
Ha chiesto di lavorare in questo settore perché aveva sentito parlare dell’istituzione di un nuovo ufficio che si chiamava “Diversity & Inclusion”. E lei si è chiesta: “Chi è più diverso di me? Sono donna, quindi c’è già una componente gender. Sono bionda (questa è una battuta). Sono mamma, quindi c’è una componente relativa agli stereotipi sulla maternità. Sono disabile. Mi manca solo essere straniera.”
Ha pensato di poter dare un contributo, piuttosto che in un settore tecnico, dove non è performante come una persona magari meno motivata di lei, che però ci vede bene. Bisogna sfruttare il vantaggio comparato che ognuno di noi possiede. Il suo vantaggio comparato non è stare davanti a un computer e fare le cose veloci, ma trasmettere ad altri le proprie esperienze di vita e le competenze acquisite negli anni, e farne un lavoro.
Quando è arrivata nel nuovo ufficio c’era molta curiosità nei suoi confronti, perché era la prima volta che si aveva a che fare con una disabilità così esplicita. E anche un po’ d’imbarazzo, che però è stato subito superato. Superato grazie al suo modo di porsi, molto tranquillo, e anche all’intelligenza delle altre persone: il muro si abbatte da entrambe le parti, non solo da una, se no si fa troppa fatica.

All’interno della Diversity & Inclusion c’è un’area che consiste in quattro colonne: Culture, Age, Gender, Disability. La parte Disability non era stata ancora sviluppata, e all’arrivo di Cecilia la sensibilità su quest’area era matura. Ma occuparsi di questi temi è sempre impegnativo. Cecilia vuole provare a fare di quest’area tematica un’occasione di riflessione per tutti, dentro e fuori dal lavoro.

Da qui parte anche la riflessione sul linguaggio. Cecilia si è accorta che i dipendenti con una disabilità venivano ancora aggregate in categorie che secondo lei non rappresentano più la realtà. Per esempio: “i disabili”, “gli invalidi”. Certo, alcune terminologie sono ancora utilizzate dalle leggi e dai regolamenti. Ma tanto quanto nell’ambito gender si cerca di lavorare sul linguaggio per far passare dei concetti, se vogliamo che una persona che ha una disabilità sia considerata prima di tutto come persona, allora bisogna iniziare a lavorare anche su un approccio linguistico, che è il primo passo per un più rilassato approccio comportamentale e relazionale.

Perché se tutti noi ci sentiamo un po’ più tranquilli nel relazionarci con una persona che manifesta una disabilità, una diversità, nel posto di lavoro le cose migliorano. E di conseguenza anche nella società.

Mettere al centro la persona

Il primo problema è la stessa definizione di “disabilità”, nozione nella quale rientrano situazioni tra loro molto diverse.

In passato si usava il termine handicap. La parola è di origine inglese: hand-in-cap (che letteralmente significa “mano nel berretto”) era il nome di un gioco d’azzardo diffuso nel Seicento. Il gioco si basava sul baratto o scambio, tra due giocatori, di due oggetti di diverso valore; il giocatore che offriva l’oggetto che valeva meno doveva aggiungere a questo la somma di denaro necessaria per arrivare al valore dell’altro oggetto, così che lo scambio potesse avvenire alla pari. Da allora, il termine handicap è stato utilizzato nel linguaggio sportivo per indicare lo svantaggio attribuito in una gara al concorrente che ha maggiori possibilità di successo, per dare a tutti gli altri la stessa possibilità di vincere.

Dal significato originale legato al gioco e allo sport la parola handicap è stata poi utilizzata alla fine dell’Ottocento per indicare in generale il modo di equilibrare una situazione compensando le diversità. Solo agli inizi del Novecento la parola è stata adoperata in riferimento ai disabili.

Per quanto riguarda le persone, l’interesse da perseguire non è ovviamente quello di penalizzare i “superdotati”, ma quello di sostenere gli svantaggiati con misure che equiparano o comunque tendano all’equiparazione delle posizioni di partenza.

Nel linguaggio corrente si è avuta un’evoluzione della nozione di disabilità: inizialmente si faceva riferimento al deficit da cui la persona era colpita, poi si è passati a distinguere la persona dalla menomazione da cui è affetta, utilizzando la locuzione, ritenuta più rispettosa dell’individuo, di persona disabile.

La persona che ha una disabilità deve essere considerata prima di tutto come persona. La sua diversità va posta in posizione predicativa, come un attributo. Bisogna evitare la sineddoche, ossia confondere la parte con il tutto. La diversità non esaurisce la persona: è una condizione, uno stato, una caratteristica.
Quindi: disabile (e i termini che indicano i tipi di disabilità: paraplegico, tetraplegico, cieco, amputato, non vedente) non vanno usati come sostantivi. Altrimenti si confonde una parte con il tutto e così si riduce, si offende, si umilia una persona.

Poi bisognerebbe stare attenti ad alcune espressioni. Un segno evidente di disabilità è la carrozzina (non “carrozzella”, che è quella trainata dai cavalli). Evitare espressioni come “confinato, relegato in carrozzina”. La carrozzina è un mezzo di mobilità, liberazione, indipendenza: aiuta, non limita. Meglio “usa una carrozzina”.

La nozione di disabilità sul piano internazionale

Anche sul piano internazionale si è avuta un’evoluzione della definizione della disabilità. Il primo sistema di “Classificazione internazionale delle menomazioni, delle disabilità e degli handicap” (sigla ICIDH), pubblicato nel 1980 dall’Organizzazione mondiale della sanita (O.M.S.), presentava una catena sequenziale che traeva origine da una malattia che lascia una menomazione, la quale comporta conseguentemente una disabilità, che si traduce, infine, in un handicap (ossia la condizione di svantaggio).

Questo modello di disabilità definito “consequenziale” (malattia – menomazione – disabilità – handicap) è stato oggetto di critiche, e ciò ha condotto l’O.M.S., nel 2001, all’adozione di un nuovo sistema classificatorio: la “Classificazione internazionale del funzionamento della disabilità e della salute” (sigla ICF). Un nuovo approccio alla disabilità, che si basa su tre principi: universalismo, approccio integrato, modello interattivo e multidimensionale della disabilità.
All’esito di questo processo il termine handicap, che da uno studio condotto dall’O.M.S. in diversi Paesi risultava avere per lo più una connotazione negativa, viene finalmente bandito e sostituito con quello di “persona che sperimenta difficoltà nella vita sociale”, spostando l’accento dalla causa all’impatto, e intervenendo così sul contesto sociale.

Questo significa ripartire dalla centralità della persona umana, rivalutando la disabilità “non tanto come una mancanza quanto come una dimensione della diversità umana”, nella consapevolezza che il cuore del problema non sta nella condizione della disabilità in quanto tale, ma nei contesti sociali e culturali in cui essa emerge.

Quindi con il nuovo sistema classificatorio dell’O.M.S. s’introduce un approccio integrato al problema, che si muove nella triplice differente prospettiva del corpo, della persona e della persona in un contesto, fortemente condizionato dal contesto ambientale. Proprio questa considerazione degli “aspetti contestuali della persona” consente quella correlazione tra stato di salute e ambiente che è all’origine della nuova definizione di disabilità formulata dall’O.M.S., intesa oggi come “una condizione di salute in un ambiente sfavorevole”.

Nel dicembre 2006, poi, le Nazioni Unite hanno votato la “Convenzione per i diritti delle persone con disabilità”, che pone al centro dell’attenzione la persona.
La disabilità è una caratteristica peculiare, temporanea o permanente.
Il disabile diventa persona con disabilità.
La Convenzione è stata ratificata dall’Italia nel febbraio del 2009 e dall’Unione europea nel dicembre del 2010.

Diversamente da cosa?
«L’errore di principio: nella dizione “diversamente abili”
viene proposto come prioritario il concetto di “diversità”.
La disabilità non è una diversità, ma una condizione di vita.
Ogni individuo è diverso dall’altro senza che per questo
venga meno il valore della persona.»

Silvia Galimberti, giornalista

Il titolo di questo articolo riprende quello del libro di Bertram Rosemberg Marshall, padre della comunicazione non violenta.
La vignetta in apertura è tratta dal materiale di una giornata dedicata ai temi della Gestione della disabilità in azienda, organizzata da Jobmetoo e Wise Growth, presso l’Impact Hub a Milano, il 19 aprile 2018.
  • On 30 Maggio 2018
Tags: Cecilia Fort, Chiara Lucchini, disabilità, Disability, Diversity & Inclusion, glaucoma, HR, persona
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