Linguaggio inclusivo: solo genere?
I motivi per progettare sempre con cura le parole
di Gabriella Rinaldi
Linguaggio inclusivo: se ne fa un gran parlare e molte persone prestano la propria professionalità e personalità per la causa.
Un grazie speciale ad Alma Sabatini per averci regalato nel 1987 le sue “Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana”, saggio con il quale ha illuminato il tema del maschile sovraesteso che rende invisibile il femminile. Chissà cosa penserebbe oggi del dibattito sulle professioni!
Possiamo sapere però cosa ne pensa Vera Gheno che nel suo libro “Femminili singolari” si batte molto sul tema del sessismo linguistico per dimostrare che l’italiano non è una lingua sessista di per sé, è sessista l’uso che se ne fa.
Certo, è un bene ragionare sulle discriminazioni di genere nelle parole, anche se, almeno qui in Italia, il discorso si accende (o si spegne) solo sul linguaggio inclusivo di genere, tralasciando che è uno dei tanti aspetti che valga la pena prendere in considerazione quando si tratta di cercare le parole dell’inclusione.
Il linguaggio inclusivo è molto di più.
Una definizione di inclusività
Il vocabolario Treccani definisce l’inclusività come:
- Capacità di includere.
- In particolare, capacità di includere più soggetti possibili nel godimento di un diritto, nella partecipazione a un’attività o nel compimento di un’azione; più in generale, propensione, tendenza ad essere accoglienti e a non discriminare, contrastando l’intolleranza prodotta da giudizi, pregiudizi, razzismi e stereotipi.
Persone giovani, anziane, immigrate o residenti in un paese da generazioni, etero, gay, lesbiche, transgender, queer, abili e disabili, di questa o quella fede religiosa.
Il linguaggio inclusivo è lo spettro che comprende le molte identità e le infinite sensibilità che abitano la società. Per questo si preferisce parlare anche di linguaggi inclusivi, al plurale.
Ci siamo noi: persone, prima di tutto. Noi che dobbiamo abbracciare la complessità e abbiamo bisogno di parole che dicano di noi al mondo e all’interno della lingua. Tenendo a mente che da un lato i nomi sono conseguenza delle cose, e che dall’altro sono i pensieri e le parole che generano la realtà.
Oggi si parla anche molto di linguaggio ampio, esteso, per ridurre il paradosso generato in buona fede dall’aggettivo inclusivo: una persona privilegiata che concede a una persona marginalizzata di essere inclusa, rendendo il processo quasi esclusivo ed escludente.
“La parola è materializzazione”, diceva Alma Sabatini. Sarebbe bello non aver bisogno di etichette, ma sono proprio le parole che ci aiutano a decodificare la realtà e rendono visibili molte cose, persone e identità.
Chiaro, queste parole non possono essere l’unico strumento per descrivere la realtà, sono solo uno degli strumenti per parlare e scrivere in modo rispettoso a più persone possibile: facciamone buon uso.
Le parole dell’inclusione
Quante volte, davanti alla necessità di nominare e descrivere a parole la realtà, ci troviamo a metà tra pregiudizio e benaltrismo, quella sensazione che ci siano ben altri problemi più urgenti?
Quante volte la nostra diversità, o quella di persone a noi vicine, non viene riconosciuta perché mancano le parole?
Questo è ben illustrato in “Scrivi e lascia vivere”, il manuale di Valentina Di Michele, Andrea Fiacchi e Alice Orrù su come riconoscere stereotipi e pregiudizi per rappresentare al meglio identità di genere, disabilità, condizioni socioeconomiche, età, colori della pelle e trovare le parole dell’inclusione.
Qui vi proponiamo alcuni degli aspetti da considerare per fare buon uso delle parole dell’inclusione e abbracciare diverse sfere del nostro vivere sociale.
Ecco i pensieri di Alessandro Lucchini su sessismo, abilismo e ageismo.
Sessismo linguistico
Pregiudizi trasmessi fin dall’infanzia, attraverso la letteratura, il cinema, il pensiero comune: il sessismo nella lingua passa di qua.
Perché il segretario è un ruolo importante di un partito o di un’istituzione, e la segretaria è quella che tiene l’agenda del capo e gli porta il caffè (oggi si chiama personal assistant, ma le mansioni son tanto diverse)?
Medico donna? dottora? medica? Ministra, assessora, professora (ok, non suona, ma è solo questione di abitudine: Angela Merkel era cancelliera, e nessuno se ne lagnava).
Per noi i nomi, gli aggettivi, le persone dei verbi, e tutti i pensieri che stanno là sotto, sono maschili o femminili. Piaccia o no, la lingua italiana è gender marked: a differenza dell’inglese, dove quasi tutte le forme sono neutre o ambivalenti. E per consuetudine – non per legge divina – il plurale misto diventa maschile.
Quello che stiamo vivendo è un momento magico per la riduzione del divario di genere, in tanti campi dell’umanità. Anche con accelerazioni brusche, magari anche solo provocatorie.
Analizzare il linguaggio aiuta a cogliere il passaggio tra i nostri pensieri e quelli altrui; e così a scegliere parole che includono, anziché escludere; che rispettano, anziché attaccare.
Abilismo
Conviene familiarizzare con la parola abilismo, che è l’insieme di atteggiamenti e comportamenti discriminatori nei confronti delle persone con disabilità.
Esistono comportamenti abilisti, come scegliere un luogo inaccessibile per un meeting o un evento, o usare una sedia a rotelle per appoggiarsi, o per appoggiarci sopra degli abiti, e poi ci sono forme di micro-aggressioni abiliste che partono da spunti goliardici, non intenzionalmente offensivi.
Poi, le parole sono di sicuro responsabili dell’includere o dell’escludere. Ben prima della disabilità.
Pensiamo a come sono spesso chiamate le persone con patologie (i tossici, i depressi, i diabetici), o appunto con disabilità (i ciechi, i sordi, gli zoppi, i paraplegici).
Persone contro persone, stigmatizzazioni. Che si trasmettono nelle famiglie, nei gruppi organizzati, e diventano modi di essere e di concepire l’essere degli altri. Pregiudizi, più o meno inconsci.
Forse basta un ascolto un po’ più intenso e profondo, uno scrupolo di rispetto, di gentilezza, di empatia, e chiunque può far stare meglio le persone con cui vive, nel lavoro e nella vita personale, tenendo un comportamento gentile anche con persone appena conosciute. Utopia? Io spero: reale possibilità.
Ageismo
La parola ageism non è ancora di uso comune, anche se i pregiudizi sull’età sono consolidati da secoli, forse ben più radicati nella parte inconsapevole del nostro agire.
Pensiamo alla letteratura classica, al teatro, al cinema, dove l’eroe in genere è un giovane ardimentoso, e l’anziano è saggio, sì, ma spesso anche malandato e magari pure un po’ rintronato. Però qui, forse, rispetto ad altri pregiudizi, può essere più facile una soluzione d’inclusività, che è la reciprocità, lo scambio, la mutualità.
Forse, più che in una contrapposizione ideologica, l’ageismo si colloca in una dialettica naturale. E poi tutti i giovani – almeno, auguriamoglielo – un giorno saranno vecchi. E tutti i vecchi sono stati giovani. Sono due esperienze che più facilmente convivono negli esseri umani.
Il problema delle differenze generazionali può trovare in sé la soluzione. È quello che oggi viene chiamato reverse mentoring, o meglio mutual mentoring.
E questo può funzionare in entrambe le direzioni del confronto generazionale. Il mutual mentoring è un patto, scintilla di uno scambio di valori e competenze, di una relazione non gerarchica, basata sulla reciprocità e sul desiderio d’imparare, l’una parte dall’altra.
Si può davvero parlare e scrivere in modo rispettoso a più persone possibile?
Lera Boroditsky nel suo TEDtalk “How language shapes the way we think” suggerisce che dovremmo sviluppare un atteggiamento critico nei confronti dei nostri pensieri e domandarci: Perché penso in questo modo? Posso pensare diversamente? Che pensieri voglio creare?
Scrivere e comunicare con un linguaggio inclusivo vuol dire farsi delle domande e poi nominare cose, persone e comportamenti affinché acquisiscano valore. È una responsabilità, facciamola diventare anche una gioia, la gioia di creare una società più democratica e partecipativa.
E allora: come distinguere le accortezze utili dalle inutili pruderie? Come liberarsi dagli stereotipi inconsapevoli e scegliere parole che includono? Come allenarsi a un buon ascolto per instaurare relazioni sostenibili? Quali sono le parole e i comportamenti che avvicinano e che allontanano?
Con un po’ di allenamento possiamo progettare con cura le parole e accompagnare chi ci legge o ci ascolta, con gentilezza e rispetto, verso nuovi punti panoramici da cui vedere il mondo.
Con l’aiuto di alcuni strumenti possiamo diventare progettisti, designer di parole, in ogni contesto e rendere i nostri linguaggi inclusivi (al plurale).
Buon allenamento a tutte e tutti!
***
Tra gli strumenti da aggiungere al kit della buona comunicatrice e del buon comunicatore, vi suggeriamo il corso Le parole dell’inclusione, frutto dell’esperienza di Luciana De Laurentiis, head of Corporate Culture & Inclusion di Fastweb, e del nostro Alessandro Lucchini.
Il corso gratuito è suddiviso in 4 lezioni della durata totale di un’ora circa ed è disponibile sulla piattaforma Fastweb Digital Academy. Una volta completato, dà la possibilità di ricevere l’attestato di partecipazione e il badge digitale.
Cogliamo l’occasione anche per segnalare il nostro nuovo corso aziendale D&I e linguaggio: come usare le parole per una comunicazione rispettosa.
- On 7 Dicembre 2022