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di Francesca Gagliardi

Il consenso informato: strumento per comunicare o per difendersi? 
Dovrebbe essere un momento qualificante nella relazione medico-paziente. 
Invece viene spesso relegato a momento marginale, più simile 
a un’incombenza burocratica che a un delicato punto di partenza della terapia.

Sempre di fretta, e da qualche tempo sempre più distratta. 

Marilena, da poco incinta, in un momento di disattenzione cade; istintivamente appoggia a terra le mani per proteggersi. Risultato: polso molto gonfio e dolente. «Sospetta frattura», dicono al pronto soccorso indicandole il reparto di radiologia dove andare a fare una lastra.
Sala d’attesa. Il tecnico di laboratorio la accoglie per le domande di rito:

«È incinta?»
«Sì, di poche settimane.»
«Ah! Allora deve tornare dall’ortopedico per farsi dare l’autorizzazione per fare le lastre: le posso fare la lastra solo se il polso è effettivamente rotto. Secondo lei è rotto?» (1)
«Io non lo so! So solo che mi fa male!»
«Beh, mettendo tutti i ripari e stando lontana la lastra si può fare. Intanto deve firmare questa carta: è per il consenso informato.»

L’approccio è carente sia sul piano comunicativo sia su quello procedurale. Il consenso informato, infatti, è il punto di partenza di un cammino terapeutico che può prevedere esami diagnostici (lastre, TAC, esami del sangue, ecografie) e farmaci da assumere. Solo il medico può chiedere al paziente di firmare il consenso, dopo averlo opportunamente informato. 
Marilena non conosce i risvolti giuridici e assicurativi legati alla firma del consenso informato. È una giovane donna, in salute, in attesa del primo figlio. Semplicemente, non è soddisfatta della velocità con cui viene liquidato il problema: è incinta, e quindi in maggior apprensione per il suo stato di salute e per quello del nascituro. Per poter decidere se sottoporsi all’esame, chiede informazioni più precise:

«Mi spieghi cos’è…»
«Lei deve firmare che è a conoscenza di tutti i rischi.»
«Volentieri: lei mi spieghi quali sono i rischi.»

Il tecnico affronta l’argomento in modo vago: non fornisce spiegazioni e pretende la firma della paziente. Trattata con superficialità, Marilena non si fida, ovviamente. Il dialogo, infatti, prosegue ma si avvita su se stesso.

«No, ma non si preoccupi: non c’è pericolo per lei; al massimo per il feto.»
«Appunto. Voglio sapere quali sono i rischi.»
«Insomma le solite cose: quelle per tutte le RX.»
«Quali per esempio? Che cosa provocano? Con quale percentuale? Le cose sono due: o lei mi spiega quali sono i rischi o io non firmo il consenso informato. Perché lei non mi ha informato.» (2)

Il tecnico non informa. Non passa i contenuti ed è eccessivamente sbrigativo nei modi, che aumentano l’irritazione della paziente, quasi più delle scarse informazioni ottenute (3).
Una comunicazione così vaga blocca tutta la procedura: i due interlocutori si trovano su posizioni lontane, addirittura contrapposte.

«Non capisco a cosa serva un consenso informato se non informa!»
«Lo capisca: serve a proteggere noi che facciamo RX tutto il giorno, tutti i giorni.»
«Perfetto: se lo firmi lei.»

L’incapacità di gestire il colloquio con la paziente fa emergere il vero modo con cui il tecnico interpreta il consenso informato: come uno strumento per difendersi. In realtà, per poter esprimere o negare il proprio consenso il medico deve informare il paziente. Opportunamente. Fornendogli, cioè, tutte le informazioni necessarie perché il paziente possa scegliere (quantità) e in modo tale che le possa capire (qualità). Dovrà allora spiegare: quale trattamento (diagnostico, chirurgico o farmacologico) gli sta proponendo; quali benefici può attendersi dal trattamento; quali inconvenienti potrebbero verificarsi in caso di accettazione; a quali rischi per la salute si espone il paziente con un eventuale rifiuto; quali sono i trattamenti alternativi, se ve ne sono.
E anche quando firma, comunque, il paziente non libera il medico dalle sue responsabilità. (4)
Il dialogo si chiude dopo un crescendo di tensione. Marilena telefona al medico di base; niente lastre: opta per una fasciatura rigida che immobilizzi il polso e quando il bambino sarà nato farà una lastra di controllo.
Una scelta semplice, ispirata un po’ dal buon senso, un po’ dalla paura.
Sarà stata la scelta migliore?


 

(1) Il colloquio si avvia in modo poco rassicurante: la paziente si trova in ospedale perché si è fatta male. Si affida quindi a persone competenti perché le dicano che cosa si è fatta e cosa deve fare per stare meglio. Ma la realtà, a volte supera la fantasia: chiedere a lei se sente rotto il polso non solo è una domanda priva di buon senso, ma contrasta l’autorevolezza del tecnico, ostacolando il percorso verso la fiducia.

(2) Il tecnico presenta il modulo per il consenso informato in modo molto secco: ha usato il verbo dovere, a precisare l’obbligo della paziente a firmare, e sorvolando sulla sua necessità a essere informata. Messo alle strette tiene lontano il suo interlocutore con tre negazioni (no, non, non) e un’avversativa (ma), evocando così nella mente della paziente tutto ciò che sta negando: preoccupazione e pericolo.

(3) Qualsiasi processo comunicativo si costruisce su due aspetti: il codice linguistico e il contesto in cui avviene la comunicazione. Non sono importanti solo le parole scelte per trasmettere un messaggio, ma anche alcuni elementi esterni al discorso, come la velocità del parlato, i movimenti del corpo, gli sguardi e le espressioni del viso. Tutto concorre a rassicurare o a creare diffidenza. Mittente e destinatario, soprattutto quando si tratta di medico e paziente, hanno spesso intenzioni comunicative diverse: uno vuole trasmettere dei messaggi, l’altro probabilmente se ne aspetta altri. La capacità di un paziente di comprendere ciò che gli si dice è condizionata da vari elementi, oltre al linguaggio: la propria competenza in ambito medico, per esempio, o lo stato d’animo con cui affronta il colloquio. Solo tenendone conto e facendo leva sulla condivisione si realizza una comunicazione efficace e il messaggio arriva a destinazione.

(4) La firma, infatti, serve solo per provare che il paziente è stato informato, non a sollevare il medico dalle proprie responsabilità civili e penali. Per approfondimenti: Riccardo Sacconi, “Le parole sono importanti: la comunicazione nel consenso informato” in Ospedale sicuro: realtà o miraggio?, a cura di Alessandro Lucchini e Francesca Gagliardi, Cineas, Libreria Clup, Milano 2007, pag. 64.

  • On 21 Settembre 2012
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