Medico-paziente: una distanza di lavoro, non di rifiuto
di Annamaria Anelli
Può l’umorismo aiutare il rapporto medico-paziente? Intervista a Giovannantonio Forabosco
Giovannantonio Forabosco è uno psicologo e il principale studioso in Italia dei temi umoristici. Fa parte dell’International Society for Humor Studies . L’abbiamo intervistato su un tema che interessa molto la Palestra della scrittura: può l’umorismo aiutare il rapporto medico-paziente?
D. Noi della Palestra della scrittura pensiamo che l’uso dell’umorismo potrebbe aiutare la relazione medico-paziente. Dalle nostre precedenti interviste a medici, infermieri e volontari è emersa un’accettazione di principio convinta. Certo l’applicazione è un’altra cosa.
R. Certo anch’io condivido il principio, ma le motivazioni che rendono difficile l’applicazione sono molte.
Credo che la motivazione più scivolosa e più difficile da ammettere e riconoscere – ad esempio da parte dei medici – sia legata all’avvicinamento. È una parola che suona bene, lo spirito di umanizzazione del rapporto medico-paziente lo consiglierebbe, ma ha delle controindicazioni temute, al di là che possano attuarsi oppure no.
Una è la perdita di prestigio e di autorità: purtroppo per molti medici il prestigio e l’autorità si declinano col distanziamento; l’altra è che l’avvicinamento può significare che il paziente – che è tendenzialmente ansioso – vuole sapere, vuole essere rassicurato, domanda, pressa e stressa il medico. Il medico così, oltre ad avere i suoi problemi, ha anche la difficoltà di dover spiegare.
Per cui, quello che è un fattore positivo – la giusta distanza professionale – diventa una delle cose più difficili da mettere in pratica nella sua massima funzionalità. Perché la vicinanza eccessiva è rischiosa. Io che vengo da una lunga esperienza di psichiatria so quanta buona volontà mettono, ad esempio, i volontari nel rapportarsi a un paziente psichiatrico: il primo moto è di grande avvicinamento. Ma so anche quanta fatica fanno poi a trovare un rapporto che non sia di disturbo o di danno e come spesso siano costretti a scappare da una relazione che non riescono più a gestire.
D. Su quale leva si potrebbe agire per favorire un avvicinamento che non “faccia danni”?
L’aspetto della formazione del personale è fondamentale. Una formazione dell’essere, però, non una formazione costituita da una serie di regolette che prescrivono cosa fare e cosa non fare con il paziente. A quale distanza mi devo mettere, io medico? Non è vero che più mi avvicino al paziente e meglio è. Devo avvicinarmi quel tanto che permetta al paziente di sentirsi accolto, protetto, curato, ma che non lo faccia sentire come in una relazione madre-bambino, perché questo favorisce le componenti regressive in senso negativo. In un tipo di rapporto di questo genere il paziente si aspetta tutto dal medico, come da una mamma, e gli rende davvero il lavoro molto difficile.
La cosa curiosa è che l’umorismo può essere un fattore di avvicinamento, ma anche un fattore di giusto distanziamento. Ci sono dei medici – che sono bravi e lo sono per talento naturale non perché abbiano fatto formazione in merito – i quali rispondono senza offendere a chi li pressa con domande o richieste. Usano una battutina che distanzia, ma tengono il paziente a una distanza “di lavoro”, non a una distanza “di rifiuto”.
D. L’umorismo può diventare un ambito di formazione?
R. Sì, attraverso un po’ di teoria e molto role playing: quindi situazioni costruite in assenza del problema reale, ma che riproducono situazioni reali. Dico questo perché io utilizzavo il role playing nei miei corsi per la scuola per gli infermieri. Mi ricordo un episodio in cui gli infermieri facevano chi la parte degli infermieri, chi quella della caposala, chi quella dei pazienti. Nella nostra simulazione un paziente – che l’indomani mattina doveva essere operato – durante la notte continuava a suonare il campanello per chiamare le infermiere. Quindi una rottura di scatole al di là dell’accettabile. Il quesito per gli allievi infermieri era “che cosa fareste in una situazione simile?”.
Parlando a ruota libera su come interpretare le chiamate veniva fuori di tutto. Spesso si creavano situazioni umoristiche che però non erano finalizzate a far ridere, ma che costituivano materiale utile per riflettere sul rapporto con il malato. Alla fine – visto che si era stabilito che il malato continuava a chiamare con pretesti vari solo perché aveva una paura terribile dell’operazione – si è deciso di risolvere la cosa con due minuti di rassicurazione e un leggero tranquillante per dormire.
La relazione e la distanza professionale tra paziente e medico sono questioni importanti e complesse e l’umorismo ne è una versione per niente facile o scontata. Evitare di farsi coinvolgere emotivamente dal paziente è importante per il medico che deve seguire alcune “regole”, però, tra le quali quella di non usare il sarcasmo.
Avner Ziv (1) , che è stato tra l’altro docente di psicologia all’università di Tel Aviv, quando parla dell’importanza dell’uso dell’umorismo nella scuola avverte di non usare mai il sarcasmo perché danneggia e ferisce. È importante assimilare anche cognitivamente quando qualcosa è sarcasmo, è blanda ironia o è una battuta. Un medico può dire “no, io non sto usando il sarcasmo” perché in realtà non se ne sta rendendo conto, perché non ha chiari i confini tra i diversi tipi di umorismo.
Ci sono anche i talenti naturali che non hanno bisogno di formarsi, per i quali tutto riesce facile. Come quelli che fanno ridere intere tavolate di amici.
D. A questo proposito, faccio riferimento alle sue affermazioni contenute nell’articolo di “Mente & cervello” (2) di aprile 2009. Non si rischia di allenare a pensare in maniera creativa, alternativa, solo chi già pensa un po’ così? Il grosso del lavoro non bisognerebbe farlo su chi proprio non ha gli strumenti?
R. Quando si parla di umorismo ci si riferisce a delle competenze e a delle capacità insite nelle persone: competenze che si esprimono o non si esprimono. Parlare di umorismo è come parlare di parlare, di camminare, di competenze che appartengono all’essere umano. Se uno è paraplegico e non può camminare, con le protesi può farlo. Con l’umorismo è lo stesso: se uno non ha un disturbo patologico particolare, ha la capacità di capire e anche di produrre umorismo. Un umorismo che può non essere raffinato né evoluto, ma una competenza minima appartiene all’essere umano. Il resto è apprendimento, maturazione e sviluppo.
Quando dico che ci sono quelli che sono talenti naturali dico la stessa cosa di quando affermo che ci sono quelli che sanno disegnare e fanno da subito cose stupende. Io non so affatto disegnare, però se vado a scuola di disegno posso acquisire almeno una competenza minima, anche se non sarò mai un maestro. La stessa cosa per l’umorismo: tutti possono apprezzare e produrre materiale umoristico, ma a livelli molto diversi. Come per l’apprendimento scolastico del leggere e dello scrivere: io posso decidere di fare un investimento sugli analfabeti (decisione socialmente e moralmente meritoria) oppure posso investire per elevare chi ha solo la licenza elementare o la terza media.
D. Sui medici si potrebbe “lavorare”?
R. Sì, a patto che i medici siano interessati e motivati. Se i medici hanno delle resistenze come quelle di temere di perdere autorità e prestigio nei confronti dei pazienti e della direzione sanitaria, beh, in questo caso occorre forse aspettare ulteriori mediazioni, un ulteriore passo avanti culturale.
Lavorerei molto con gli infermieri, nel frattempo. Una delle esperienze più interessanti che ho avuto è stata un corso per 30 capo-sala. Soggetti davvero motivati. Non usavo in modo esplicito l’umorismo, ma questo sopravveniva sempre, perché è nella natura dei rapporti umani.
In uno degli episodi di simulazione un infermiere in turno si ammalava improvvisamente e la capo-sala si trovava a dover gestire la telefonata all’infermiera reperibile. L’infermiera faceva la parte di quella che non è contenta di essere disturbata, ma la capo-sala doveva per forza farla venire al lavoro. C’erano delle consegne che io avevo dato all’infermiera reperibile delle quali la capo-sala non era al corrente: le avevo chiesto di trovare continue scuse e lamentazioni sulla propria condizione, di fare un sacco di problemi. La capo-sala alla fine mi ha detto che quello succedeva davvero nella realtà. Era molto interessante vedere la dinamica comunicativa che si instaurava tra le due parti e spessissimo l’umorismo entrava a far parte di ciò. Non era un elemento di disturbo o qualcosa che toglieva realtà al processo comunicativo, ma lo arricchiva: si accendevano riflessioni sullo scambio comunicativo, sulla gerarchia, sui rapporti.
D. Se la Palestra – sempre pensando ai nostri scopi – le affidasse un corso, che cosa proporrebbe?
R. Qui devo essere autobiografico. Io ho sempre fatto teoria e ad un certo punto mi sono detto che volevo iniziare a sperimentarmi come produttore di umorismo. Ho cominciato a esercitarmi e penso di aver inventato delle barzellette o, almeno, le ho costruite senza averle sentite o consapevolmente copiate. Quindi credo che ci sia un apprendimento possibile.
Io sono partito dalle associazioni libere. Avevo letto la tesi di una ricercatrice (Ertel) sulle parole associate. In questo lavoro si spiegava che normalmente si associano parole ovvie e scontate, ma che – a mano a mano che si esauriscono queste e si va verso parole meno ovvie e meno scontate – l’associazione diventa di per sé umoristica. Perché lo sia in maniera riconoscibile occorre che ci sia l’incongruenza della distanza, ma nello stesso tempo anche un momento di congiunzione (la parte congrua).
Quindi mettere in fila le parole a partire da una parola “fonte” potrebbe essere un primo esercizio che proporrei.
Poi si possono costruire altri percorsi di complessità crescente fino ad arrivare a formule vere e proprie già precostituite. Un esempio è lo “humor processor” che girava un po’ di anni fa quando ancora si usavano i floppy. Aveva la pretesa di descrivere come si costruisce passo passo un testo che abbia una potenzialità umoristica. Si tratta di vere e proprie formulette che ho applicato.
Poi si potrebbe prendere qualcosa da Laughter Remedy di Paul McGhee sull’uso dell’umorismo nei conflitti: umorismo come strumento di mediazione, come “attenuatore”.
Poi si dovrebbe procedere con tutti quegli esercizi che servono per sviluppare l’abduzione (3) . Quegli esercizi che si fanno con i manager per inculcare loro la flessibilità, la capacità di cambiare prospettiva.
Faccio un esempio di abduzione che funzionava 20 anni fa, ma che forse adesso, per come è cambiato il mondo, ha meno valore.
La situazione è quella di un ragazzino che viene portato in ospedale dopo un incidente. Deve essere operato, ma chi deve operarlo dice: “non posso operarlo, è mio figlio”, ma non è il padre. Qual è la soluzione?
Sarà un figlio adottato – rispondo io che intervisto.
La risposta è “la madre”. Questo tipo di esercizio funzionava benissimo 20 anni fa quando non c’erano in giro molto chirurghi donna e quindi si pensava al chirurgo sempre come a un uomo, ma vedo che va bene anche ora…
No no, forse sono io che sono tonta…
Questa è un’abduzione, con incorporato uno stereotipo con incorporato l’elemento umoristico del “cascarci”.
Ah, sono messa bene.
Soprattutto fa lavorare per uscire dagli schemi consueti, che è la base dell’umorismo.
Imparare a rompere gli schemi è uno dei passi fondamentali, nel nostro eventuale percorso. Iniziando proprio con semplici esercizi di questo genere. Per uscire dalla quotidianità, dalla routine, dalla nostra abitudine a dire “abbiamo sempre fatto così”. Proviamo a movimentare la mente, a renderla agile e creativa.
L’abduzione è il processo logico per eccellenza per la creatività. Con l’abduzione costruisco una conoscenza che non è definitiva, che è la migliore congettura possibile, e che aggiunge conoscenza alla realtà. Sherlock Holmes alla fine dice “è lui il colpevole”. In realtà il ragionamento che fa Holmes è un assisted guess, un indovinare competente e assistito (assistito dalle sue conoscenze scientifiche). Però tira a indovinare e di solito ci prende, perché così vuole Conan Doyle. Poi di solito arrivano altre prove o il colpevole confessa o accade qualcosa che ci conferma l’ipotesi di Holmes. Ma fino a quel momento è solo un’ipotesi, ma è un’ipotesi che aggiunge conoscenza: Holmes ci dice chi è il colpevole. È un po’ lo stesso modo di ragionare del Dottor House che prima di arrivare alla soluzione del caso rischia almeno due volte di far morire il paziente. Perché tira a indovinare. Mette insieme i sintomi sulla sua lavagnetta, ogni sintomo rimanda con una x probabilità a una malattia e più sono i sintomi più si moltiplicano le probabilità che si tratti di quella malattia. Poi si sbaglia, non è quella, fa altre abduzioni e così via fino a quella giusta.
Un altro esercizio potrebbe essere quello di arredare una stanza con due stili diversi: usando il disegno o il collage o altro. Questo permette di produrre quella combinazione di cose che non stanno bene o per convenzione o per la loro stessa natura. Ad esempio un tavolo barocco con una sedia in arte povera. Si tratta di un semplice contrasto che però contiene gli elementi base dell’umorismo: qualcosa di incongruo e qualcosa di congruo.
Non si ottiene un effetto umoristico, ma si lavora sul processo che porta lì.
Sono convinto che voler per forza ottenere un effetto umoristico attraverso un esercizio non solo non è facile, ma è anche frustrante. Perché o si ottiene un effetto scadente o non si ottiene niente. È preferibile fare delle mediazioni, dei passaggi, dei passi in cui si ottiene un qualche risultato che tenga insieme delle incongruenze e delle congruenze.
Un altro esercizio ancora potrebbe essere la sovrapposizione di personaggi storici per definire una persona. L’esercizio è, ad esempio, dire che una persona è l’incrocio tra Maria Antonietta d’Austria e Madre Teresa di Calcutta e motivare questa affermazione. Sforzarsi di trovare che cosa le distanzia e che cosa le accomuna e usare questo qualcosa per descrivere una persona.
D. Come si potrebbe sposare questo ipotetico corso con la “causa” di aiutare medici e infermieri a uscire dai soliti e collaudati schemi mentali?
In questo caso lavorerei molto con il role playing, creando situazioni in cui c’è un incidente critico, ad esempio il campanello che continua a suonare o la mamma che perseguita un medico per avere informazioni sul suo bambino.
Ho tenuto un corso a medici e infermieri che facevano assistenza domiciliare ai malati terminali. L’umorismo è venuto fuori moltissimo, ma non tanto in chiave di alleggerimento, di sdrammatizzazione, quanto piuttosto in chiave di mediazione e di rapporto con i pazienti. Perché anche i malati terminali hanno dei momenti in cui hanno voglia di ridere, residue risorse da immettere in questo tentativo. Mi raccontavano i partecipanti al corso che spesso non c’era proprio la possibilità, non c’era lo spazio per il sorriso, ma a volte il sorriso veniva fuori spinto da una forte esigenza, quella di tenere insieme i pezzi.
Un esercizio che usavo si basava sulle modalità da utilizzare per dire a un paziente che aveva sei mesi di vita. Il gruppo si suddivideva in tre sottogruppi: il primo sottogruppo doveva dare la comunicazione in maniera seria; il secondo doveva comunicare la notizia secondo la modalità dell’evitamento, cioè dirlo e non dirlo; il terzo doveva comunicare la notizia in maniera umoristica. Dal registro umoristico sono uscite battute che non potevano essere usate nella realtà, ma che avevano senso solo nella simulazione, nel gioco. Battute del tipo: “Lei ha per caso prenotato una crociera tra sei mesi? Beh, la disdica!”.
La logica formativa era quella di mostrare come si modulassero le varie comunicazioni e che implicazioni avessero per chi comunicava e per chi ascoltava. Dando per scontato che in una situazione reale le vere formule da produrre fossero quelle serie. Ma l’obiettivo era far capire che dire cose serie non voleva dire metterci sopra per forza un carico di disperazione.
Quindi per infermieri e medici un po’ di teoria, definizioni (differenza tra sarcasmo e ironia, ad esempio), modelli e tanto role playing.
In chiusura, un aneddoto personale.
Mi rompo il tendine giocando a tennis. Mi opero e dopo l’operazione vado dal chirurgo ortopedico per farmi rassicurare e gli chiedo: “Allora, dottore, posso iscrivermi ai tornei estivi?”.
Lui non ride. Il messaggio mi sembra chiaro: non si può nemmeno scherzarci sopra.
😉
1) Avner Ziz, Perche no l’umorismo? Il suo possibile ruolo nell’educazione, Milano, Emme, 1981
2) Mente e Cervello, n. 2, Anno VII, aprile 2009, pagg. 50-55: “l’umorismo fa parte delle competenze cosiddette di qualità, che richiedono doti innate o un precoce apprendimento”; “si tratta di un’attitudine a leggere le realtà in modo creativo: se è totalmente assente si può fare poco, ma se è presente, questo tipo di atteggiamento può essere allenato”; “La fantasia è il prerequisito indispensabile per cogliere l’incongruità che sta alla base del divertente”.
3) Dizionario Filosofico
Abduzione
Abduzione dal latino “abducere”, da “ducere”, condurre, tirare.
L’abduzione riguarda il sillogismo, quel processo logico per cui da una premessa maggiore e da una minore, consegue una conclusione.
Esempio: “tutti gli animali sono mortali (premessa maggiore), tutti gli uomini sono animali (premessa minore), tutti gli uomini sono mortali (conclusione)”.
Questa la forma classica del sillogismo. Ma l’abduzione, come testimonia già Aristotele, riguarda un tipo di sillogismo particolare, quello in cui solo la premessa maggiore è vera, quella minore è invece incerta, verosimile o solo probabile (non dimostrabile), di conseguenza la conclusione non può che essere parimenti incerta, verosimile o solo probabile.
Esempio: “Il corpo è mortale, l’anima è immortale, dunque l’anima sopravvive al corpo”.
È chiaro che la premessa minore non è dimostrabile, per cui la conclusione non può risultare certamente vera. In genere, con il termine abduzione si indicano tutti i processi logici che portano a conclusioni incerte.
In epoca moderna, l’abduzione acquista un ulteriore significato con Charles Sanders Peirce, per cui sta a indicare una conclusione ipotetica basata sull’osservazione di un caso particolare.
- On 22 Ottobre 2012