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Di quando Hemingway ha frequentato la Palestra della scrittura

di Valentina Rivetti

Di Hemingway ho letto le cose che leggono quasi tutti.
Ai Quarantanove racconti ci sono arrivata coi compiti fatti: ho aperto ogni periodo e ne ho sollevato le parole per guardarci sotto, alla ricerca di quei due terzi di racconto che non vengono scritti ma che sono il cuore (e la verità) del testo. Mi riferisco a quella faccenda che Hemingway ha definito teoria dell’iceberg, affascinato dal fatto che il movimento “dignitoso” di questa montagna galleggiante dipenda dai sette ottavi di ghiaccio che stanno sott’acqua e non dall’uno che sporge.

Non ho trovato tutto il non detto che potevo, ma mi sembrava di aver fatto un buon lavoro. Dopo due giornate a Palestra di Palestra ho riletto Gatto sotto la pioggia (qui puoi leggere e anche giocare un po’ con il testo).
E allora ditelo che quelli bravi la pensano tutti allo stesso modo.

VAK > visivo, auditivo, cenestesico

«Non scrivete solo con gli occhi» è uno dei mantra di ogni scuola di scrittura. Perché? Perché questo significherebbe dimenticarsi che vivono e lottano insieme a noi non solo i visivi – che sono la maggior parte della popolazione – ma anche gli auditivi e i cenestesici. A qualcuno il mondo entra attraverso gli occhi, a qualcuno passa per le orecchie, altri se ne appropriano usando mani, naso e lingua (che, in breve, vuole dire pancia). Se vogliamo farci ascoltare – e capire – da tutti, è il caso che la nostra penna (o la voce) ragioni per immagini, suoni e sensazioni. Che solleciti, cioè, tutti i sistemi rappresentazionali.

Hemingway inizia parlando di un giardino con palme e panchine verdi. Ci mostra un pittore al lavoro e si spinge fino a un monumento dei caduti, per dirci subito che «luccica sotto la pioggia», perché «pioveva. La pioggia gocciolava dai palmizi. L’acqua stagnava nelle pozzanghere sulla ghiaia dei sentieri. Il mare si rompeva in una lunga riga sotto la pioggia e scivolava sul piano inclinato della spiaggia per tornare su a rompersi di nuovo in una lunga riga sotto la pioggia». Io sono visiva, però il freddo l’ho sentito, il tasso immorale di umidità del lungomare di Rapallo l’ho odiato, il ritmo perpetuo delle onde e il gocciolare continuo descrivevano un ritmo che non potevo non sentire. Con le orecchie e con il corpo.

Operatori modali

Volere, potere, dovere, sapere: si chiamano operatori modali perché indicano il modo in cui si svolge l’azione del verbo che precedono. Funzionano un po’ come i filtri di Instagram. “Voglio scrivere il report dell’incontro” ha un significato molto diverso da “devo scrivere il report dell’incontro”, così come il filtro seppia è molto diverso dal Fellini (che è blu, tutto freddo e moderno). Dimmi che operatore modale usi e, siccome dopo Freud il “ti dirò chi sei” lo sappiamo intuire tutti, è il caso che ci mettiamo a intuire sul serio: ci costruiamo un’idea del modello di mondo secondo cui gli altri agiscono e usiamo questa conoscenza per relazionarci meglio.

Il vecchio Ernesto è un intuitore rigoroso e costruisce due personaggi coerenti e dominati da uno specifico operatore modale.

L’albergatore anzitutto. È uno che il suo lavoro lo fa bene, con serietà. In modo dignitoso. Direi addirittura che non lo fa solo perché lo pagano, ma perché lo sente come un dovere, un comando interno. Per capirci, l’albergatore è uno che gli lasceresti anche le chiavi di casa tua, se ti servisse qualcuno di fidato. Non a caso è alto, con la faccia vecchia e pesante, le mani grandi. La protagonista lo trova sempre allo stesso posto, seduto ritto allo scrittoio dell’ufficio. È un uomo solido, che sa sempre cosa deve fare. Infatti, tutti i verbi che segnano la sua azione – anche quando non è diretta, ma filtrata dalla presenza della cameriera che agisce per suo conto – sono preceduti dal modale dovere: «Non deve bagnarsi» o «Dobbiamo rientrare» e anche «Il padrone mi ha ordinato di portare questo». A un tipo così, il reclamo – che lui accoglierebbe «con la massima serietà» – andrebbe di certo riempito di voci del verbo dovere.

La moglie americana invece, la protagonista, completamente proiettata verso il futuro, verso qualcosa che intende ottenere, è dominata dal modale volere.
Voglio compare un totale di 13 volte, 15 se includiamo la sua declinazione nel verbo desiderare. È un numero enorme, considerato anche il fatto che i dialoghi di Hemingway sono famosi per essere asciutti ed essenziali (a proposito, c’è pure una divertente app dedicata al suo stile).

Modello narrativo

Non è che Hemingway non avesse dei sinonimi, è che questa sovrabbondanza di volere gli serviva per marcare il tema del racconto: la protagonista – tecnicamente il principe/soggetto e, in questo caso, anche re/destinante perché è lei stessa che – vuole il gattino, che si è acciambellato sotto un tavolo per ripararsi dalla pioggia (motivazione/oggetto). Quindi esce per andare a recuperarlo protetta dall’ombrello della cameriera (che è un’aiutante, insieme all’albergatore) e viene ostacolata dall’indolenza del marito (resistente). Il gattino non si trova, così la protagonista (che diventa anche destinatario/principessa) rimane senza l’oggetto del suo volere, sostituibile nemmeno dal gattone che l’albergatore gentile le fa recapitare in camera.
Il modello narrativo è perfetto per riassumere la trama degli eventi del racconto, dal punto di vista della protagonista. (Sì, poi è utile anche nel linguaggio dell’accordo, ma è un altro tema).

Se però sostituiamo il gatto con il – mai esplicitato – desiderio di una vita adulta e borghese, il modello ci dice cose diverse. La protagonista sublima nel micio il desiderio di una nuova condizione; averlo diventa quindi di fondamentale importanza, le premure dell’albergatore (che rimane aiutante) significano ora la possibilità di sentirsi «straordinariamente importante» e l’inattività del marito (che rimane resistente) significa il rifiuto da parte sua al passo che la moglie gli chiede verso una vita nuova.

Il marito, in particolare, può esser definito un resistente né collaborativo né oppositivo. Praticamente il peggiore che poteva capitarle: è il tipo che sfugge alla relazione, sapendo di poterlo fare. Uno, la sua postura è eloquente (è sempre sdraiato sul letto); due, le sue risposte alle domande della protagonista – quando ci sono – non sono mai pertinenti, ma ignorano l’oggetto del domandare (lei chiede un parere sulla possibilità di farsi crescere i capelli e lui risponde «A me piacciono così come sono», lei si lamenta del suo aspetto mascolino e lui «Sei maledettamente bella»); tre, diventano dei veri e propri ordini («Smettila e cercati qualcosa da leggere»).
Ascoltare, domandare, interpretare la logica del marito e ridefinirla in un contesto nuovo (e utile a lei): questo avrebbe dovuto fare la protagonista per cercare di attenuare la resistenza che aveva di fronte, anziché esplodere in un crescendo di desideri. Visto che non parlavano realmente di gattini, lui sarebbe stato comunque un osso duro, ma c’è da dire che lei la strategia l’ha proprio sbagliata.

Livelli logici di pensiero

Perché mi sono permessa di sostituire l’oggetto (la motivazione, quella che nell’esempio fiabesco del modello narrativo chiamiamo l’amore per la principessa): dal gatto al desiderio di una vita diversa? Potrei dire, semplicemente, perché Hemingway costruisce i racconti come un iceberg: quello che vediamo – il gatto – è metafora di tutto un mondo ben più complesso – la vita nuova – che rimane sommerso.

Pensandoci bene, però, mi sembra che in questo caso il principio dell’iceberg possa essere declinato anche in un altro modo, quello dei livelli logici di pensiero. Che in effetti sono strutturati di nuovo secondo un’idea di sopra/sotto, di dicibile/indicibile.

C’è un mondo del fare, che è visibile e che può sempre essere “frequentato” nella comunicazione con l’altro, perché interessa questioni come il dove, il quando, il cosa e il come (e la prima formulazione del modello narrativo risponde benissimo a tutte queste domande): domande operative, sulle quali ci si può confrontare senza ferire nessuno degli attori coinvolti. Poi c’è il mondo dell’essere, una zona delicata, in cui non è il caso di entrare con l’ombrello aperto e le scarpe bagnate di pioggia, in cui ci si gioca temi come i valori (perché?), l’identità (chi?) e la missione (per chi altro?). E la seconda versione del modello si articola meglio con questa lettura “sottomarina” della storia.

Vita vera

Non so se il vecchio Ernesto avrebbe sofferto a vedermi così entusiasta di ribaltare l’iceberg e guardare quello che c’è sotto. Se avesse fatto resistenza gli avrei detto che quando costruisci un racconto così perfetto da sembrare la vita vera, devi accettare il rischio che qualcuna potrebbe trattarlo come una Palestra in cui allenarsi a leggere il mondo, e a starci dentro un po’ più comoda.
 

  • On 30 Giugno 2014
Tags: di quando hemingway ha frequentato la palestra della scrittura, Palestra della Scrittura, pdp, valentina rivetti
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